Astolfo Maria Cicerano: cartone, ferro e palloncini per educare lo sguardo all’altrove
Articolo di Antonio Mastrogiacomo
Dopo un brillante percorso di studi presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e diverse esperienze in ambito espositivo, Astolfo Maria Cicerano prosegue la sua ricerca in un laboratorio tanto disordinato quanto colorato di stanza nel basso Lazio, non lontano dal mare. L’equilibrio tra natura e manualità stimola la sua curiosità tanto che sia iniziato tutto nella prima infanzia – afferma – è da lì che parte tutto di solito no? Ho avuto la fortuna di avere un piccolo giardino pieno di fiori e strumenti da lavoro di mio nonno, così ho potuto sperimentare forme e colori eseguendo i più disparati esperimenti, talvolta troppo pericolosi per un bambino, ma comunque molto divertenti.
La ricerca di Astolfo parte dal riciclo di alcuni materiali che restano catalizzatori della sua personale etica:
Mi piace utilizzare materiali ‘social popolari’ nel senso della loro semplice reperibilità e costo. Sono molto attratto dal ferro e il cartone. Sento che in questa fase della mia vita mi rappresentino molto. Il ferro lo apprezzo molto per il suo essere duro ma al tempo stesso facilmente corruttibile, di fatti mi diverto a corromperlo, promuovendone l’ossidazione in ruggine che attraverso attente e precise operazioni ne controllo la nascita, dando così origine a forme simboliche. Il cartone invece lo reperisco dalle strade, lo vedo per quel che è, un albero trattato abbastanza male ma che conserva intatta la sua meraviglia. Molti dei lavori fatti in cartone visti da una certa distanza appaiono tronchi di albero, man mano che ci si avvicina non si riesce a riconoscere il tipo di legno fino a quando magari, s’intravede una scritta o simbolo del cartone così si rimane stupefatti dall’ambiguità del soggetto, e come spesso mi piace ricordare; all’inizio era la meraviglia.
Eppure l’opera è destinata a scomparire dal possesso dell’artista per manifestarsi all’attenzione di un pubblico che Astolfo invita alla messa in gioco tale che:
ci si trova davanti ad oggetti che possono apparire più o meno complessi ma con materiali molto conosciuti; cerco io stesso attraverso il mio lavoro di attrarre il fruitore a magari strappargli un sorriso: ‘abbassando le difese è più facile sedimentare un messaggio’.
Così Astolfo racconta di una sua opera esposta di recente presso il Museo Archeologico di Salerno dal singolare titolo Plug in:
L’oggetto sottolinea vistosamente le sue componenti basi, ferro ed aria. La gabbia in ferro nero è il contenitore cheingabbia un pieno d’aria, messo in evidenza dai palloni colorati. L’oggetto sottolinea ed esalta l’inconsistenza del proprio contenuto che, pur essendo aria, riesce attraverso qualche accortezza tecnica ad attrarre. Il titolo dell’opera crea volutamente un’ambiguità, tra il mondo informatico e quello sessuale. Così il gioco linguistico tra questa addizione di oggetti che collaborano tra di loro per mostrarci un pieno di vuoto ma allo stesso tempo la forma fallica richiama l’altro senso del titolo. Tramite l’opera cerco di innescare nel fruitore l’idea del banale, instaurando un meccanismo talvolta comico che faccia calare la tensione nell’osservazione. Cercando di creare una specie di scherno attorno al lavoro stesso, che scoraggi magari l’analisi stessa del pezzo. L’immagine è semplice e accessibile a tutti, la struttura formale del pezzo che rimane comunque familiare, poggia su una struttura retorica semplicistica, ma che gradualmente, magari, instauri nuovi livelli di significato capovolgendo pian piano il senso attribuito all’oggetto, favorendo così un senso di ambiguità usando la provocazione come un mezzo. Questa provocazione però è pacata, non è accesa, è una provocazione morbida, che pian piano cerca di far leva sui luoghi comuni che tutti noi portiamo all’interno di noi stessi. Attraverso il gioco delle forme e colori mi diverto a manipolare la realtà cercando a mia volta di crearne un’altra. Il legame con la realtà quotidiana vi è sempre, così che l’opera si trasformi in un’esca percettiva, che attrae l’osservatore tramite un riconoscimento del soggetto, instaurando così con il fruitore un’intimità con il soggetto ‘opera’.
Infine, Astolfo regala alcune lucide osservazioni sull’artista a lavoro al tempo dei social:
Ho notato che sembra piacere molto alle persone sui social vedere lo sporco, nel senso che vedere qualcuno che nell’atto del fare tra strumenti ed altro che s’ingegna a progettare una forma e dargli un nome, mi sembra risvegli qualcosa nella curiosità dell’individuo, e sicuramente il fatto di pensare a cosa si potrebbe mostrare del proprio fare, mi risulta essere un’ottima meditazione sul mio agere. Cosa molto importante è mostrare la vita, tutto ciò che avviene prima della forma definitiva. Non prendetemi troppo seriamente.
[Antonio Mastrogiacomo]