- La siringa, di Teocrito
‘Parola’ e ‘immagine’ sono da sempre due realtà in simbiosi tra loro. Le parole descrivono, raccontano, e la loro bellezza è in ciò che lasciano immaginare, sanno creare delle vere e proprie scenografie, sensazioni, al punto che a volte sembra che si facciano oggetto, che si possano toccare. Quando poi una parola è scritta è dunque un insieme di segni grafici, in questo senso è già un’immagine. Fin dai tempi antichi c’è chi ha sfruttato questa caratteristica del ‘segno’ per costruire piuttosto vere e proprie figure con le parole, l’esempio più antico risale al III secolo a.C. quando Teocrito scrisse un poemetto greco titolato La siringa, allora celebre strumento musicale a fiato, i cui versi erano scritti a formare il disegno di questo attrezzo.
L’uso delle parole come segni illustrativi ha avuto un grosso sviluppo nel Novecento, quando i poeti, spinti anche dall’esigenza di creare un nuovo linguaggio che si addicesse al nuovo spirito di una società basata sull’immagine, sulla comunicazione visiva, iniziarono a sperimentare parole disposte in figure. Proprio durante i primi decenni del Novecento, anche se è nel secondo dopoguerra che si conviene il vero punto di inizio, si sviluppa la cosiddetta poesia visiva, strettamente legata ai generi di poesia concreta e poesia sonora, stesso spirito ma differenziata da essi per alcuni fondamentali dettagli.
Questo fenomeno si pone a metà strada tra letteratura e arte, tra pagina e quadro, tra parola e immagine. Apollinaire, poeta francese, ci fornisce uno dei primi esempi di tale ‘invenzione’ con il suo Calligramma dove le parole del suo componimento ‘cadono’ come una pioggia irregolare e mossa dal vento; poi un testo di Marinetti, scrittore futurista italiano; altro tra i primi noti esempi è Autoritratto del poeta Govoni: i versi disegnano un viso, gli occhi sono tutto ciò che guardano, dunque sguardi come dei raggi, le orecchie “tamburi, imbuti”, la bocca come “una macchina dattilografica delle parole, tromba d’oro suonata dall’angelo bianco, divano pallido dei baci”; fino a soluzioni più sofisticate, al passo coi tempi (come anche svariate forme di collage).
Leggere delle poesie visive è impresa quanto mai impegnativa poiché stimolano il lettore in vario modo dal momento che congiungono la lettura delle parole, del loro significato, il tutto contemporaneamente al ‘decifrare’ la loro figurazione, ma è di certo una pratica molto stimolante per la creatività. «I diversi ‘corpi’ delle lettere, le mescolanze tra stili differenti creano nel lettore una congerie di emozioni e di direzioni differenti di senso. La poesia diventa significante per come è scritta, non solo e non tanto per cosa dice. Oggi che con i computer possiamo variare i caratteri continuamente con pochi click ci sembra tutto semplice, ma certamente in quegli anni dieci del Novecento, l’idea di una poesia che liberasse il linguaggio dalla farraginosità della rima, del senso compiuto e della lettura unidirezionale, costituivano una novità straordinaria. Lo stesso ductus della scrittura si fa complesso e onnidirezionale […]», spiega Valerio Dehò, curatore di una mostra appropriatamente titolata “Belle parole”, belle anche esteticamente parlando, questa esposizioneha documentato la diffusione di questi fenomeni culturali estremamente interessanti e nel farlo ha preso spunto dai principali gruppi italiani fautori per poi allargare l’indagine ad alcune personalità internazionali.
Ma «Questa mostra è solo un frammento di una galassia ancora in espansione», dichiara Dehò. La fisicità del linguaggio è difatti fonte di ricerca ed ispirazione mondiale ed inarrestabile, come tale si è introdotta, oltretutto, addirittura nel mondo dei tatuaggi, quel mondo dove si fa appello assolutamente a qualcosa di estremamente particolare, bello, perfetto, perché deve dar vita a ciò che durerà per sempre: non rare sono le richieste di frasi, parole, ‘tatuate’ a formare dei disegni, forme, dal risultato senz’altro ‘poeticamente’ distintivo e personalissimo.
[di Flavia Tartaglia]