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Articolo di Giovanni Postiglione
È forse questo il tema più immenso, complesso e articolato della storia dell’arte italiana ed europea. Tutta la produzione artistica dai primordi dell’antichità sino alle forme rivoluzionarie degli inizi del Novecento è una storia di ritratti. Al di là di quelle commissioni volutamente destinate alla raffigurazione di sé – in forma di icona ufficiale o privata, con intenti politici o per motivi propagandistici, a visione pubblica o per uso familiare – ogni opera d’arte sia essa una scultura, un clipeo funerario, una moneta o un gigantesca tela ha avuto a che fare con volti umani; presenti come protagonisti o come comparse nell’abitare scene storiche, mitologiche, religiose, con tratti somatici veri o inventati, camuffati da divinità o personaggi storici, stilizzati fino all’astrazione o caricati come grottesche, ognuna di esse volutamente o indirettamente ha ingegnato l’artista a cimentarsi con la tematica del ritratto.
In effetti, bisognerà aspettare la rivoluzione della fotografia, nel XIX secolo, con la sua capacità “obiettiva” di bloccare nello scatto la verità assoluta dell’occhio e della natura, senza finzioni e recondite intenzioni – alterazioni cromatiche ed effetti virtuali esclusi – , il ritratto nell’arte forse non fu mai vero fino in fondo, mai distaccato da ideologie, finalità, intenzioni e significati di vario tipo. E ciò non è da considerare un male, perché bisogna mai isolare il prodotto intellettuale-artistico dalle ragioni e dalle tempistiche evolutive della storia, dai retroscena politici e sociali in cui si innesta e dalle reti antropologiche, filosofiche e ideologiche in cui vive l’umanità.
Una macchina indietro nel tempo
Cominciamo l’indagine in un’antichità vicina al periodo storico dell’arte egizia. A dispetto di quanto possa tradire il repertorio formale e iconografico, il ritratto “egizio” mostra un particolare interesse per il “tratto individuale”: le fisionomie sono molto vitali, anche se montate su corpi quasi dimenticati in una seriale tipizzazione. Il profilo è d’obbligo sulle superfici murari di monumenti, obelischi e sontuosi ambienti aristocratici, ma curatissima è la resa di particolari quali l’abbigliamento, i monili e le acconciature, che rivelano la condizione sociale del ritratto. Regine-gatto come sfingi, faraoni d’oro in cui il viso è un tutt’uno con la lamina preziosa del copricapo e schiavi inevitabilmente anonimi. Non mancano ovviamente eccezioni di rara bellezza e valore documentativo, come ad esempio il presunto ritratto della regina Nefertiti a Berlino.
Nell’arte assiro-babilonese, invece, si producono numerosi ritratti soprattutto di blasonati dinastici, mentre gli artisti dell’area cretese-micenea “incastrano” i loro soggetti nelle ridotte dimensioni della miniatura decorativa e tralasciano il problema ritrattistico.
Il regno dell’uomo e della sua valorizzazione è l’arte greca. Canoni, misure, proporzioni e bellezze della macchina anatomica umana costituirono la mission centrale della cultura artistica ellenica. Inizialmente si figura un “tipo”, un modello, un’idealizzazione più lontana da un naturalismo dell’individuo veramente esistito con i suoi connotati somatici. Si stampano nelle forme scultoree kùros e kòre, i prototipi perfetti della bellezza ideale, astratta, stilizzata: un esercito di perfezione plastica a cui tutti devono rassomigliare.
Il cd. periodo severo (prima metà del V secolo a.C.) chiude le porte all’arte arcaica matura e apre al pieno classicismo: volti accigliati ed espressioni di ritratti in serie, marcatamente ideali, adatti per tutte le “maschere e le misure”, i cosiddetti “tipi” (l’efebo, l’atleta, il guerriero, il filosofo). Devia qualche eccezione, come nel caso di ritratti di barbari, schiavi o mostri che presentano già qualche tratto “impressionante” e connotativo della persona.
Nel secolo successivo impazzano ritratti di poeti, di filosofi, di tragici e di oratori, ancora di matrice idealizzante e armonica ma nei quali già scappotta fuori la ricerca di una componente di introspezione psicologica. È il segno evidente che i ritrattisti cominciano a documentarsi sui dati biografici del personaggio traducendoli in una maggiore evidenza alla realtà.
Con la fama che si conquista Alessandro Magno, nasce il ritratto tipico dell’eroe: il sovrano dal volto ispirato, glorioso, capace di mille ardue imprese. Il suo ritrattista ufficiale è il grande Lisippo, il vero creatore del ritratto “moderno” in età ellenistica, intenso nel significato vero del termine: il ritratto fisiognomico fedele alla mappa somatica, alla realtà fisica e anche al mondo interiore spirituale. La tipologia del sovrano “ispirato” nasce proprio dal genio dell’artista nell’aver preso spunto da un difetto fisico che obbligava il generale macedone a reclinare leggermente il capo verso la spalla. Ne elabora quell’atteggiamento del volto e dell’occhio teso verso l’alto, come in estasi rapito, quasi concentrato in un muto colloquio con la divinità. È l’ellenismo alla sua massima diffusione. Con questa “invenzione” si celebreranno le figure dei grandi personaggi dell’antichità così come di tanti sovrani e condottieri contemporanei resi con maggiore espressività e accelerata verità ritrattistica.
Dopo Lisippo, post ellenismo, dal III al I secolo a.C. il ritratto fisiognomico accoglie non solo i volti di sovrani o di illustri, ma abbraccia anche i semplici privati: l’arte è ormai a disposizione del singolo e tutti ne possono usufruire.
A Roma nel I secolo a.C., mentre i sovrani continuano ad essere riprodotti su statue e monete, nasce anche il ritratto onorario privato e il ritratto funerario, per dare volto agli antenati, così cari e sempre presenti nel culto familiare oppure alle immagini divine dei grandi imperatori. La composizione tipica del ritratto romano è il busto, ereditato dalla tradizione etrusco-italica. I posteri ammireranno tanta gente vestita alla togata, statue loricate, pose equestri per generali e imperatori (fortemente ripresi poi nei monumenti del XV secolo), ibridi sconvolgenti realizzati impostando vere teste-ritratto di dame, nobildonne e uomini di legge (non sempre bellissimi) su corpi statuari, belli, ideali, classici.
Barba, ciuffetti e ciocche, acconciature femminili diverse e forme del busto sono quei particolari estetici usati dagli storici per risalire alle diverse cronologie dinastiche: raffinatezza nell’età di Augusto, morbido vigore sotto i Flavi, intensità con Traiano, accademismo nel periodo di Adriano. I ritratti dell’epoca degli Antonini e dei Severi si distinguono per un sapiente gioco di levigature e trapani, con cui i mastri scalpellini si divertono a modellare ciocche di barbe e di capelli come serpenti guizzanti. Il tipo dell’imperatore che mira verso il cielo con lo sguardo perso nell’ispirazione divina sarà il modello per la koine dell’immagine astratta e divinizzata che tanto servirà nella ritrattistica del IV secolo d.C.
Medioevo è Cristo. Il ritratto si rifà esclusivamente all’immagine della divino Salvatore, e di tutta la sua schiera di santi, angeli e beati. Alcune imago vengono attribuite dalla tradizione devozionale alla stessa divinità, come autoritratte miracolosamente da mano trascendete, le cosiddette archeropita (es. la Sacra Sindone di Torino). I committenti della sacre tavole o dei crocefissi aulici si riducono a miniature sproporzionate rispetto al sacro personaggio grandeggiante. Se va peggio, l’uomo finisce per essere inserito come elemento decorativo in quel bestiario fantasioso di motivi antro-fito-zoo morfi che ricopre architetture d’oltralpe, capitelli e guglie gotiche.
L’uomo, mortale, ha il suo ritratto soprattutto post mortem, nell’ambito dei corredi funerari, accompagnato dalle “cose che lo rappresentano”, in primis dalle insegne del suo status sociale. Sulla tradizione del magistrato romano, i personaggi lasciano il ricordo di sé nella massima espressione della loro vita, cioè bloccati nella pietra con le vesti della loro carica politica, militare, religiosa e con i simboli del potere raggiunto in terra: imperatori bizantini nella basiliche e nei tribunali paleocristiani, ritratti di papi nelle grandi basiliche, mecenati e fondatori di edifici sacri immortalati in mosaici e in affreschi che decorano le loro costruzioni. Nasce l’uso del nimbo quadrato, l’aureola mortale che serve per individuare all’interno di una folla di personaggi sacri, il personaggio ancora vivente.
Nella miniatura e nei manoscritti, committente, amanuense e miniatore si rimpiccioliscono tra lettere capitali e volute vegetali con piccolissimi ritratti, e si trovano i primi autoritratti di artisti (es. Vuolvino nell’altare d’oro di Sant’Ambrogio, 835). Nel XII secolo si concentra una maggiore precisione e un interesse al ritratto individuale con i programmi artistici di autocelebrazione dinastica o papale. La scultura funeraria invece riscopre la formula magica dei calchi sui volti del defunto per impressionare la pietra con veri tratti fisiognomici.
In pittura ancora una volta Giotto mantiene i suoi tanti primati contribuendo alla diffusione dei ritratti dei donatori e committenti: è il caso di Enrico Scrovegni nella cappella di Padova e tutto ciò farà scuola con pale dedicate a sovrani, santi di corte e personaggi importanti. È la nascita del ritratto di corte.
I “raffigurati” dal XV secolo in poi si sentiranno “moderni”: l’arte finalmente riconosce la dignità al soggetto. Così vuole la cultura dell’Umanesimo e una classe borghese in ascesa, l’uomo di città, quotidiano, che fatica il suo lavoro, che popola i Comuni. Per le commissioni private ritorna la postura a busto – che strizza l’occhio ai ritratti di consoli e imperatori romani – o a mezza figura, impreziosita nei costumi d’epoca, con vere acconciature e gioielli, “foto-ritratto” di gruppo, in famiglia, immortalate nelle stanze private di casa propria o nei saloni di rappresentanza.
Il ritratto rinascimentale pubblico ha un potente valore di documento storico, è un veicolo ora perfetto per la memoria, indipendentemente dal contesto, sia esso allegorico, ufficiale, religioso, celebrativo, denigrante, scandaloso. La nota fondamentale è l’individuazione fisionomica dal vero.
Lo studio delle anticaglie antiche è un canale privilegiato per riprendere moduli classici da riutilizzare nel ritratto: è il caso della monete antiche che rilanciano la posa in “profilo” con chiaro intento, ricercato e richiesto, di celebrazione. In questo campo eccelle Pisanello (Lionello d’Este, Pinacoteca dell’Accademia Carrara di Bergamo). La riprendono Piero della Francesca (raffigurerà Federico di Montefeltro di profilo per nascondere un suo difetto ottico, inventando la soluzione del dittico con la moglie Battista Sforza), Botticelli e Pollaiolo. E all’antico guardano moltissimo, più di tutti, gli scultori che riprendono clipei, busti, posture e elementi decorativi dal box mai esaurito del mondo classico, con una grazia tutta nuova e con il marmo bianchissimo di sempre che divinizza i soggetti (Della Robbia, Rossellino, Verrocchio, Laurana)
Negli astanti delle scene affollate, anche personaggi storici, committenti, contemporanei o gli stessi artisti si ritraggono con divertito simbolismo. Protagonisti del passato e della cultura danno volto a simposi, scuole, conversazioni e dispute (Raffaello, Scuola di Atene, Stanze Vaticane).
Con la minuziosa follia investigativa dell’arte fiamminga delle Fiandre il ritratto è totalmente realistico (vedi i Coniugi Arnolfini di van Eyck). Antonello da Messina e Giovanni Bellini a Venezia mescolano arte italiana e arte d’oltralpe con ritratti di tre quarti o frontali carichi di vitalità, volumi squadrati e diagonali di sguardi che pretendono lo sguardo dell’osservatore.
Nel veneto cinquecentesco il mezzo busto con contorno di simboli e attributi biografico-sociali si diffonde dalle menti creative di Tiziano, Savoldo, Tintoretto, Lotto. Il ritratto ufficiale dei condottieri e dei sovrani viene messo a cavallo di potenti bardi che ricordano i rampanti già plasmati da Donatello, così come papi e cardinali di broccato vestiti sono intronizzati con tutti i loro pensieri. Raffaello diventa il maestro di corte con ritratti ufficiali: pose eleganti e delicate, sguardi immersi in tutt’altra dimensione aulica e ideale, espressioni sempre contenute che non si sfaldano, come porcellane preziose.
Leonardo da Vinci si ritaglia un suo spazio personale nella storia della pittura ritrattista che lo isola in un momento di pura psicologia a colori: la Monna Lisa, la Dama con l’Ermellino e le altre sue donne passano per la sua ricerca ossessionata di indagine interiore e con lui si apre un momento di introspezione che ancora si ostina a non svelare il suo mistero.
Ritratti allusivi e allegorici scherzano nel personificare i soggetti con divinità pagane, miti ed eroi antichi (Sebastiano del Piombo) sviluppati poi nel “manierismo” di Pontormo, Bronzino e Parmigianino, dove la ricerca di nuove “s-regola-ti” canoni trasforma volti, mani e arti e anatomie in soggetti bislunghi, tormentati, infernali e bizzarissimi. Tutta altra schiera di pittori controriformati invece sfornerà, in Germania e nei paesi postridentini, una produzione industriale di ritratti improntati ad un nuovo devozionismo che omologa tanta parte della pittura della seconda metà del XVI secolo.
Il ritratto “barocco” è una piena esplosione di vero espressionismo e non ha ormai più limiti nel cogliere aspetti intensamente autentici, forti. Velàsquez fotografa i personaggi della casa reale con immediata e ravvicinata eleganza, ma rimane più attratto dai Buffoni di corte che riporta sulla tela con drammatico realismo. È la caricatura.
Lo scultore Gian Lorenzo Bernini traduce in marmo passionale il movimento interiore del carattere dei personaggi, e le sue sculture sia esse di soggetto religioso che laico si infiammano all’istante.
Nei passi Bassi il ritratto è davvero sviluppato e si diffonde in tutto il resto d’Europa: Rubens, con i suoi colori che si animano, Van Dyck, Hals, Steen, l’intimità quotidiana e sensuale di Vermeer e Rembrandt.
Nell’Ottocento le correnti ritrattistiche si diversificano in direzioni differenti: idealizzazione “alla classica” nelle opere di J.L. David, romanticismo in Delacroix, realismo politico in Daumier e Courbet. Nadar arriva come una meteora e apre le porte alla fotografia, sperimentando il primo flash al magnesio: le sue immagini vellutate gli valsero l’appellativo di “Tiziano della fotografia”. Degas, Manet, Renoir e Rodin sono più immediati mentre van Gogh punta tutto sull’intensa psicologia che apre al mondo della luce del sole, dei colori impressionanti, del subconscio mentale e delle visioni personali.
[di Giovanni Postiglione]