Il fulmine nella terra si ripropone di esaminare il terremoto che nel 1980 sconvolse l’Italia. Contemporaneamente la storia di una ferita ancora aperta.
Ottima replica per Il fulmine nella terra, monologo teatrale scritto e diretto da Mirko Di Martino e interpretato da Orazio Cerino. Lo spettacolo, risultato finalista e guadagnatosi la Nomination Miglior Attore al Roma Fringe Festival 2014 e la Nomination Miglior attore al Premio Landieri Teatro d’Impegno civile 2012, è in programmazione ai Quartieri Airots dal 18 al 20 novembre.
Come specifica uno dei fondatori dell’associazione, Salvatore D’Onofrio: «Airots è la parola “storia” scritta al contrario, non vogliamo fare il gambero che retrocede ma osservare il passato per andare avanti», quale spettacolo quindi più adatto a questo teatro? Il fulmine nella terra si ripropone di esaminare, con scrupolo e ironia, il terremoto che nel 1980 sconvolse l’Italia. Contemporaneamente, grazie alle musiche che scandiscono i tempi del recitato, come ad esempio “Olimpic Games” o “Su di noi”, lo spettacolo ripercorre i passi della nazione nel tempo. La storia di una ferita ancora aperta, come si nota osservando gli spettatori che si raccontano la propria esperienza dopo la rappresentazione.
I dati utilizzati nel testo sono molto precisi, le storie sono vere, le registrazioni che si odono sono quelle originali. Mirko Di Martino ha fatto un corposo studio documentario e ribadisce: «C’è stato un grande lavoro di ricerca. I continui riferimenti agli anni ’80 fanno anche parte della mia adolescenza. Le due cose servono a raccontare: c’è l’Italia di “Disco Bambina” proiettata verso lo show che nasceva, c’è questa Italia nascosta che il terremoto porta alla luce». Il testo è capace di commuovere e di far ridere, di far ragionare e di far sentire; conclude il regista: «Io comunque non volevo fare una cronaca di dolori, volevo fare un racconto più ampio e ricco di quello che è stato, quindi serve anche il mettere un po’ di distanza. Cercavo la possibilità di far sì che il pubblico ascoltasse e capisse il gioco».
Lo spettacolo disegna un mondo passato, per alcuni versi familiare per altri ormai perduto, che si costruisce davanti agli occhi dello spettatore. La scena è spoglia, le immagini create lo arricchiscono numerose. Merito, questo, anche di Orazio Cerino il quale in un’ora interpreta l’Italia intera. Le singole storie e voci dei terremotati, i politici spesso indifferenti, la polizia, le canzoni, i videogiochi e gli atteggiamenti di un popolo e di un contesto intero. Afferma l’attore: «Mirko mi lascia molto spazio; poco alla volta ti rendi conto che in una frase manca qualcosa, un colore che è magari un accento, un’inflessione dialettale, ti rendi conto che è un tratto a matita e che quel colore va definito. È una continua crescita».
I tratti tipici dell’autore si notano: le luci espressive, le frasi ripetute che diventano un leitmotiv nello spettacolo, la nota ironica. I temi affrontati non sono pochi e forse sono, purtroppo, ancora molto attuali. Il mondo prima di quel terremoto, che segna quasi un distacco generazionale, è dipinto realisticamente dalle registrazioni e descrizioni della “non-tecnologia”, del calcio in televisione, delle abitudini. Il testo è estremamente esplicativo. Così comincia tutto, con una costatazione: “O si vince o si perde, come nel calcio. O si va su o si va giù, come nella vita”.
Trentasei anni fa un terremoto ha scosso l’Italia. “Sono molti o pochi novanta secondi?” Li abbiamo misurati, come abbiamo controllato anche l’intensità della scossa perché “quello che misuriamo ci appartiene”. Mentre i politici si facevano domande cui avrebbero dovuto fornire una risposta, mentre i giornalisti accorrevano insieme a dei fondi tardivi e non del tutto organizzati, mentre le forze dell’ordine, poche e disinformate, vagavano da un paesino all’altro, tremila persone sono morte sotto le macerie.
“Paesi storti come la gente che li ospita” crollavano, quasi non fossero mai esistiti. Coloro che si erano salvati si appellavano alla “mano di Dio, quella che tutti gli altri hanno mancato”, altri erano presi dal senso di colpa dei sopravvissuti, dato che “i morti sono domande senza risposta”; molti invece se ne andarono “Perché è meglio sentirsi italiani all’estero, che stranieri in Italia”. Lo spettacolo si conclude con un’insoluta domanda: “Noi chi sa, se abbiamo vinto o perso”.
[di Francesca Lomasto]