In tre epoche tutto cambia tranne “la banalità dell’amore” – al Teatro Mercadante fino all’11 marzo
Hannah Arendt scriveva “La banalità del male” negli anni ’60; Savyon Liebrecht, scrittrice tedesca naturalizzata israeliana, titolò “La banalità dell’amore” la pièce teatrale incentrata sulla relazione sentimentale tra Hannah Arendt e Martin Heidegger. Due opere a distanza di tempo dove “Amore” e “Male” condividono l’aggettivo “Banale”, per entrambi l’accezione di quest’ultimo significa non “banalizzabile” ma fatto da persone “banali”.
“È assurdo come una studentessa brillante ed una stupida possano comportarsi allo stesso modo”, commenta così il suo amore per il filosofo nazionalsocialista Heidegger la giovane Hannah, nell’adattamento di Piero Maccarinelli in scena al Teatro Mercadante fino all’11 marzo, con Claudio di Palma nel ruolo di Martin Heidegger; Anita Bartolucci (Hannah Arendt); Federica Sandrini (la giovane Hannah Arendt); Giacinto Palmarini (Raphael Mendelsohn e Michael Ben Shaked).
Se il “male” di cui parlava la Arendt era banale in quanto chi lo compiva non era un essere demoniaco né mostruoso ma “normale”, mite, un grigio burocrate, un tecnico attento solo ad ubbidire gli ordini, come quello di organizzare il trasporto di milioni di ebrei nei campi di concentramento, la “banalità” dell’amore è molto più autodistruttiva.
“Lei si illudeva di essere importante per lui come lui lo era per lei. Il che è giustificabile per una ragazza di 18 anni ma patetico per una donna di sessantanove”. Fedele al testo teatrale della Liebrecht, Maccarinelli sceglie di cadenzare la pièce tra retrospezione e sovrastruttura temporale, a comandare il palcoscenico una creatura divisa, una Arendt che si racconta in tre momenti della sua vita: quando, diciottenne, era innamorata del suo professore di filosofia, il trentaseienne padre di famiglia Martin Heidegger, i due tra legami emotivi e divergenze ideologiche si incontravano nella baita dell’amico di lei Raphael; decenni più tardi quando nel suo appartamento di New York, ormai donna negli anni ’50, mostra come la banalità corrosiva di quell’amore non si era mai spenta; ed infine del 1975 quando i due si rincontrano, Arendt è tornata in Germania ed Heidegger per molti versi era ormai un uomo annientato, ma nonostante tutto alla mente torna quell’invito de “l’ultimo romantico tedesco” accettato da lei in gioventù “Come concordato, io le prometto che rispetterò questo miracolo; io le prometto che l’aiuterò a rimanere fedele a se stessa; io la invito a fuggire con me dagli altri”.
A segnare i passaggi temporali tra l’una e l’altra Arendt una sigaretta, fumata (vissuta) dalla giovane Hannah e desiderata (ancora) dalla più anziana Hannah; ed un gioco di luci rispettivamente fredde per la studentessa in compagnia del filosofo tedesco e calde per la donna in procinto di pubblicare “le origini del totalitarismo”, la quale accetta di essere intervistata da un ragazzo che si presenta come un giovane ricercatore dell’archivio della Shoah dell’Università di Gerusalemme interessato a darle la possibilità di chiarire molte sue opinioni in merito al processo Eichmann. L’intervista in realtà si rivelerà solo un pretesto per far aprire la donna circa il suo rapporto con Heidegger, il giovane si scoprirà essere un rappresentante di apparecchiature fotografiche la cui vera identità è ben diversa da quella con cui si è presentato, molto più vicino di quanto s’immagina al passato della giovane futura docente dell’Università di Chicago.
Tra l’una e l’altra età tutto è cambiato, quel male “banale” ha scritto la pagina più brutta della storia, mentre la sigaretta unisce infine le due Hannah sulla scena, sono rimaste un’unica persona, unite da quell’amore “banale” che nonostante tutto ha reso “Inizio e fine eternamente identici”.
[di Flavia Tartaglia]