“Questo testo parla di cose enormemente attuali: pedofilia, incesto, violenza sulle donne e minori, uxoricidio, parricidio, figlicidio paterno”, un testo che scava più a fondo, oltre l’assuefazione, scuote l’indignazione, per affrancarsi dal male
versi, canti, drammaturgia e regia Mimmo Borrelli
direttore di scena Teresa Cibelli
con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Autilia Ranieri
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
assistente ai costumi Irene De Caprio
assistente alle scene Sara Palmieri
musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione
disegno luci Cesare Accetta
Il teatro San Ferdinando dal 10 aprile è una cava cupa popolata da un universo di anime dannate, persone e bestie, dai tratti teneri e crudeli, che muovono croci, massi, recitano maledizioni, cattivi presagi, incesti, tradimenti, amore contrastato, amore commovente, assassini ed emergono dal buio, sembrano venir fuori dagli incubi, lo stesso buio e gli stessi incubi dai quali si intende affrancarsi: è “La Cupa. Fabbula di un omo che divinne un albero” di Mimmo Borrelli, il quale ne cura i versi, i canti, la drammaturgia e la regia; si tratta del primo spettacolo della sua nuova trilogia dedicata alla Trinità della Terra (dopo la Trinità dell’Acqua composta da ‘Nzularchia – 2003; ‘A Sciaveca – 2006; La Madre: ‘i figlie so’ piezze ‘i sfaccimma – 2010).
Lo spettacolo, una produzione del Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, ha rivoluzionato la struttura della platea per accoglierne spazi e significati, la scenografia di Luigi Ferrigno è stata ispirata da un incubo ricorrente di Borrelli, “Un pianeta che gli cade addosso e nel precipitare lo sveglia da trent’anni in una polvere stellare di paura e sudore”, racconta Ferrigno, difatti la scena, sovrastata da un enorme, instabile ed incombente pianeta, è il territorio dei cavatori di tufo dei Campi Flegrei, un luogo che diventa “metafora di una madre terra non più gaia, ma inzozzata di scorie, di bambini innocenti fecondati per commercio”, scrive Borrelli. La prima parte dello spettacolo (diviso in due parti fruibili in settimane alterne fino al 6 maggio) inizia con il singhiozzo, di pianto o di riso, del bambino ancora vivo in un uomo dall’infanzia negata, oltraggiata, subito si viene così introdotti in un tempo fuori da ogni purezza, un tempo nel quale “Un bambino fino all’età di un anno e mezzo – spiega l’autore – non ha più la possibilità di sviluppare quello che è stato il fuoco sacro dell’evoluzione umana: la creatività. Senza creazione, senza creatività una civiltà è destinata ad estinguersi. Ai bambini viene tarpata l’età del gioco e dell’infanzia. Oggi ogni apprendimento è indotto, è già condotto verso una vittoria fallace e apparente; prima si giocava con le pietre e con quelle ci si immaginava di essere guerrieri, soldati, principi o mostri, ora quei mostri esistono già. In questa riflessione ho condotto una riflessione più grande: la difficoltà della paternità. Creare vita, essere pronti ad essere padri: divinità minori di una società minore, è ancora auspicabile? Da qui il tema”.
Uno spettacolo che non intrattiene semplicemente ma che si impone come un vero e proprio atto culturale, attraverso svariati espedienti quali anzitutto la parola volutamente inquinata da forti turpiloqui e blasfemie, forse unica forma d’espressione adoperabile da chi è indignato e vuole far indignare, scuotere. “La Cupa” sconvolge, fa riflettere, infastidisce, porta a galla i demoni, quelli che si nascondono all’interno e quelli che minacciano dall’esterno, il fine è svincolarsi dal torpore e liberarsi di loro, “Racconto la violenza del nostro tempo e i veleni del nostro paesaggio. Il mio intento, sia da autore che da regista – scrive Borrelli – è stato quello di mettere in crisi e spostare ancora più in basso sul pentagramma della tastiera lo sdegno, l’asse della violenza di questa vicenda per allarmarne il pericolo. Questo testo parla di cose enormemente attuali: pedofilia, incesto, violenza sulle donne e minori, uxoricidio, parricidio, figlicidio paterno. Argomenti del tutto esposti alla realtà del presente ma rispetto ai quali non sentiamo e percepiamo più orrore, avvinti come siamo da quell’assuefazione dovuta al lucro dei mezzi televisivi e telematici che tali notizie diffondono”.
Il linguaggio usato, dunque, oltre la parola è il suono, migliaia di versi scritti in anni e anni di lavoro dal geniale drammaturgo originario di Bacoli, tutti legati a schemi metrici, come una poesia, una filastrocca, una canzone, una musica che si pianta in testa e scava ancora più a fondo le coscienze di quanto avesse potuto fare una tradizionale prosa. I canti e le musiche svolgono altrettanto un ruolo fondamentale, in essi riecheggia un misto di generi e culture, quasi fosse un modo per universalizzare una tematica purtroppo non circoscritta solo ad una cava flegrea, dallo strazio indolente come una passione di Cristo alla belligeranza attiva delle arti marziali o di un’haka Maori. “Di mese in mese ho iniziato a registrare canti liberi sui quali poi ho innestato filastrocche, versi e parole, immaginando il lavoro dei cavatori come un mantra tibetano o un gamelan indonesiano, dove gli strumenti musicali comprendono metallofoni, xilofoni, tamburi e gong”, racconta Borrelli; “Il suono nasce dai suoi elementi costitutivi: terra, acqua, aria, fuoco. La musica interagisce con il respiro e il movimento degli attori in scena: una drammaturgia di suoni che si rincorrono, si attraversano, si aspettano in contrappunto alla parola poetica declamata, sussurrata, cantata, urlata”, spiega Antonio Della Ragione, compositore ed esecutore dal vivo delle musiche e ambientazioni sonore.
La compagna teatrale che mette in scena il dramma è compatta come un esercito che si mette in gioco in nome dello stesso valore, ogni personaggio esprime il suo personale sentimento di collera e nasconde un misfatto, un’ombra che si svela al dipanarsi della trama, ogni persona porta sul palco il suo peculiare bagaglio artistico ed emotivo ma posti in dialogo creano la stessa forza ed armonia di un coro, di una danza, di un passo a due (come la straziante storia di vita di Settanculo e i commoventi dialoghi d’amore tra quest’ultimo e Vicienz Mussasciutto, ex amanti). È “un popolo mai visto”, racconta Borrelli, “una comunità che non scende nell’imitazione di una comunità preesistente e particolare, ma partendo da queste per coglierne degli aspetti e metterne in piedi, formalizzare e verticalizzare individui che hanno un codice di comportamento tutto loro”. Se in certi momenti dello spettacolo non sempre il testo in dialetto è ben comprensibile, soprattutto ai non partenopei, è l’abilità degli attori, i loro toni, gesti e le loro espressioni, a far sì che il senso e la sensazione arrivino perfettamente; proprio come la scena in cui il tempo sembra decelerare, ma non grazie all’effetto filmico del ralenti, bensì grazie ad un perfetto coordinamento tra i corpi in scena che sembrano trasportare per un attimo gli spettatori dal teatro al cinema.
“Ma ‘a terra primma o poi ‘nt ‘a na vota / contr’a ll’ommo sempe s’arrevota”, la favola confluisce in una frana che smuove tutte le malefatte dissotterrate e nascoste, ma è l’uomo che l’ha provocata. Il protagonista, dopo aver affrontato una realtà folle, perduta l’unica fede che aveva, muta trasformato dai liquami nucleari e tossici in una creatura “dalla pelle di corteccia, le lacrime di resina, il capo ricoperto di foglie secche e muschio, per contrappasso si radica, mette quelle radici che un padre dovrebbe sempre saper imprimere”.
Se è l’uomo che trasforma la terra e non viceversa, allora l’uomo attraverso l’arte, attraverso il teatro, può giungere ad un riscatto? Può, raccontando il mondo, permettere di cambiarlo?
“Convincimi tu che tutto questo abbia un senso / convincimi tu che sia possibile il dissenso / intonato al canto della tua imperfezione / stonato dal canto della mia disperazione”.
[di Flavia Tartaglia]