Articolo di Raffaella Annunziata
La forma dell’acqua, ultimo lavoro di Guillermo del Toro, è stato in corsa per gli Oscar 2018 con ben 13 candidature, aggiudicandosi ben 4 premi: l’ambitissimo Miglior Film, ma anche Miglior Regia, Miglior Colonna Sonora e Miglior Scenografia.
E’ facile intuire le motivazioni che hanno permesso la vittoria.
La storia si svolge negli anni 60, ed è ambientata in un laboratorio scientifico americano nel quale Elisa, una ragazza muta, lavora nell’impresa di pulizie. La sua vita scorre regolarmente noiosa ma serena, fin quando qualcosa cambia. Uno strano esemplare di una forma di vita acquatica, sconosciuta, è stato catturato e viene tenuto prigioniero al laboratorio, per essere studiato.
Storicamente i personaggi vivono nel periodo della Guerra Fredda, ma Elisa, il suo amico e vicino di casa Giles, la sua collega Zelda sembrano non farne parte. Tutti e tre sono degli “ultimi”, degli emarginati, ma vivono la loro esistenza con dignità, ovattata, senza far rumore.
La pellicola è una storia che parla di razzismo, e troviamo questo tema su tre binari paralleli, rappresentati dai protagonisti; il più evidente è nei confronti di Zelda, una donna di colore, verso la quale non mancano continuamente le battute del suo superiore, che a sentirle adesso fanno venire la pelle d’oca. Visibile è la discriminazione nei confronti di Giles, omosessuale, che la vive sulla sua pelle e nel lavoro, confinato in un appartamento e che non ha la possibilità di vivere la sua natura. La discriminazione nei confronti dell’Altro è alla base di tutto il film, non è immediatamente visibile ma è soffusa in tutta la storia, a diversi livelli.
Quali sono le motivazioni che spingono un essere umano a discriminare un altro essere umano? Questo argomento è scottante al giorno d’oggi, ed il dibattito potrebbe ampliarsi sui molteplici livelli della nostra attualità quotidiana. Ma basta fare una riflessione molto semplice: la categorizzazione in “me” e “diverso da me” ha già alla base una accezione che va a favore di sé stessi, e del proprio gruppo sociale, e a discapito dell’altro. Lo psicologo sociale Tajfel condusse uno studio e dimostrò che una mera e banale divisione in categorie, basata su caratteristiche insignificanti, bastava a far scattare nei membri di ciascun gruppo la tendenza ad autopercepirsi come gruppo contrapposto all’altro, e questo senso di appartenenza promuoveva dunque comportamenti di sostegno con i membri del proprio gruppo e rivalità, diffidenza, ostilità rispetto agli altri.
Le persone tendono rapidamente a stabilire differenze tra un noi ed un loro, e basta poco per dichiarare l’altro un nemico, ridurlo in schiavitù, declassarlo, privarlo del suo livello di umanità. L’Altro fa paura, richiede uno sforzo di comprensione enorme, richiede di abbandonare le proprie categorie mentali per conoscere lo sconosciuto.
E’ ciò che accade, ma con una certa naturalezza, ad Elisa. Inizialmente incuriosita da quell’essere, non spaventata, si pone nei suoi confronti scevra dai pregiudizi e dalle categorizzazioni prestabilite, una modalità relazionale che ha adottato da sempre.
Ma Elisa impersona la storia di come ci si possa innamorare di uno sguardo, di come quella sensazione di “essere visti” sia il motore di ogni sentimento. “Cosa sono io? Muovo la bocca come lui, non emetto nessun suono, quindi io cosa sono? Tutto ciò che sono, tutto ciò che sono mai stata, mi ha portata qui da lui. Quando mi guarda, il modo in cui mi guarda…lui non sa cosa mi manca, nè che sono incompleta. Lui mi vede per ciò che sono, come sono ed è felice di vedermi, ogni volta.”
Elisa si avvicina alla creatura percependo esteticamente una differenza, un’alterità; ma poi riconosce una somiglianza, un cuore che batte e dei polmoni che respirano, riconosce il soffio vitale che anima entrambi, e sente quanto le loro vite siano indissolubilmente simili. Da sempre lei non comunica con il mondo esterno nel modo in cui tutti facilmente lo fanno, da sempre è nascosta agli occhi degli altri, quasi invisibile, oggetto di curiosità. In psicoanalisi, essere amati si concretizza con l’appagamento del desiderio di essere visti e riconosciuti per quello che si è, nella propria interiorità più profonda e nascosta. Ed Elisa viene vista proprio dalla creatura, che durante tutto il film non ha un nome, ma rimane “lui”, e viene connotato sempre da una maggiore umanità. E’ interessante la parte in cui, giunto a casa di Elisa, inizia una fase di adattamento alla vita domestica umana, che porta piano piano la donna alla consapevolezza di dover lasciarlo andare per salvargli la vita; commovente fino alle lacrime, nonostante connotata di allegria per la situazione divertente, è la scena in cui Elisa sogna in bianco e nero di ballare un valzer assieme al suo lui, vestita di tutto punto. Ma il tono è dolceamaro, le parole dicono “Non lo saprai mai quanto mi manchi. Non lo saprai mai quanto mi importa di te…”. Ed è proprio così. Pur percependolo, Elisa non potrà mai dirglielo.
E’ una favola magica, la fotografia e le scenografie sono costruite magistralmente, sembra quasi di essere continuamente in uno scenario onirico; è notte per la maggior parte del film ma la storia non ha un tono cupo, al contrario è dotata di mistero e fascino. Numerosi sono i riferimenti al mondo dello spettacolo, visibili nelle scene televisive inquadrate, che fanno da sfondo alla vita dei protagonisti e restituiscono loro una quota di divertimento, di glamour e fascino hollywoodiano che non vivono nella loro normale quotidianità. Le musiche si distinguono per un mix di dolcezza ed eleganza, ed incorniciano perfettamente le scene.
Sally Hawkins interpreta Elisa magistralmente, riesce a dare la “voce” ad un personaggio che non può parlare, ma che comunica in modo forte. Una donna che sogna, si innamora, che prova desiderio sessuale. E qui si può notare come lievemente accennata la tematica della de-sessualizzazione delle persone disabili. Invece è emblematica è la scena in cui, dopo il primo rapporto con lui, Elisa compra le scarpette rosse che aveva ammirato in vetrina, simbolo del suo essere rinata donna, attraente e voluttuosa. Un’attrazione sana, reale, e non morbosa come quella del colonnello Strickland, che inizia ad essere tentato dal fatto che Elisa non abbia il dono della parola.
Un ulteriore riflessione da poter approfondire riguarda il potere. La creatura era “venerato come un Dio” nella sua civiltà, aveva poteri magici e curativi, una creatura sovrannaturale che invece viene ridotto in catene. Quanto poco ci vuole per perdere il potere ed il controllo della propria vita, per passare da essere venerato ad essere torturato? E su questo livello c’è anche la storia del colonnello, che passa dall’essere il cattivo dominante della storia all’essere dominato da un suo superiore, che può distruggere la sua carriera e di conseguenza la sua vita. E’ possibile persino provare empatia per questo personaggio e per la sua lenta discesa in disgrazia. Ma La forma dell’acqua è una storia di rivincita degli ultimi, dei deboli, dei discriminati, contro i poteri forti e predominanti, è la storia di personaggi speciali che sfuggono al grande gioco politico delle mega-potenze America e Russia, che scappano ai loro meccanismi di spionaggio in modo fortuito, ma spinti dall’amore l’uno per l’altro, dall’affetto, e dall’amore per la scienza (vedi il Dr. Dimitri, a metà tra due fuochi, che li aiuta a salvare la creatura per amore della scienza ma poi, messo alle strette, rivela tutto, tradendoli, rivelando le sue due anime, impossibili da far combaciare).
E’ un film capace di trasportare in un universo diverso, in cui tutto è possibile.
Incapace di percepire la tua forma, ti ritrovo tutto attorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, onora il mio cuore perché sei ovunque.
[di Raffaella Annunziata]