Antonio Gramsci ci aiuta a comprendere il fenomeno della riscoperta del folclore e quale il ruolo che esso storicamente ricopre per gli “sfruttati” del nostro paese.
L’Italia è paese di mille dialetti, tradizioni ed espressioni artistiche di più varia declinazione. Ovunque, nel nostro paese, è possibile rintracciare pezzi di storia, di arte e di vita nella loro formulazione più aggregativa, collettiva e socialmente condivisa. Negli ultimi anni, forse su spinta della crisi economica e dell’esigenza di recuperare un linguaggio e un’espressione artistica popolare più vicini alle storie, alle vite vissute e alle miserie quotidiane del nostro tempo, è in corso un progressivo recupero e una crescente riscoperta del “folclore”. Tante sono le manifestazioni artistiche in cui è possibile guardare e praticare danza, musica, poesia, arti figurative ed espressive tipicamente popolari. Ogni estate in tutta Italia migliaia di giovani e meno giovani riscoprono la taranta, la tarantella, la quadriglia, i canti di lotta dei briganti o dei partigiani e leggono s’informano e contaminano questi lasciti della tradizione convertendoli in sintesi nuova di un’esigenza espressiva che si fa montante e che cerca via via nuove bocche da cui diffondersi. Ai più e ad un’analisi superficiale il folclore è quella forma espressiva recuperata dal passato che ci diverte e aggrega, un guizzo, una battuta, un qualcosa di istrionico e popolare. Ma che cos’è il folclore? Da dove viene questo termine?
Su questo punto già nei suoi Quaderni dal carcere, Antonio Gramsci è molto chiaro: «Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento pittoresco […] Occorrerebbe studiarlo invece come “concezione del mondo e della vita”, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni “ufficiali” del mondo (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico». In poche parole, l’intellettuale sardo, vuole dirci che le forme artistiche, espressive e culturali che possiamo definire come “folclore” o popolari sono forme espressive di una determinata parte della società, che è società divisa in classi, in particolare di quelle classi più umili e oppresse che notoriamente sono tenute fuori dalla possibilità di decidere politicamente, economicamente e quindi di far parte della cultura ufficiale.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un grande recupero di tutto questo patrimonio che si è via via fatto strada proprio in quella cultura ufficiale da cui era escluso. Ma a che prezzo? Quella che vediamo oggi è una rappresentazione plastica del tempo che fu, una simulata farsesca di come si viveva ai tempi nelle campagne o nelle fabbriche di un’Italia che prendeva forma o poco più. Si è perso, nella maggioranza dei casi, il senso profondo di quei canti, quelle storie, quelle battaglie. Ancora una volta Gramsci, che per tutto il novecento è stato il faro da seguire in fatti di studi sul folclore, ci dice come sia stato possibile tutto questo: «occorre distinguere diversi strati: quelli fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti». Un certo tipo di folclore quindi non solo diviene una semplice offerta in più nel menù vacanziero del turista in libera uscita ma un vero e proprio strumento della cultura dominante (quella propria della classe dominante) per mostrarsi benevola verso queste forme d’espressione. Gramsci su questo è molto netto e chiaro. Questo tipo di approccio e di “riscoperta” è quindi “snaturamento” o regresso. Reinventare, riscrivere, tramandare sotto la giusta luce e sviluppare in avanti il “folclore” è quanto oggi “gli sfruttati” possono e devono fare per avere voce in capitolo in questa società.
Badiamo bene quindi, quando nelle coste assolate della Calabria, sui monti del Trentino o nelle fortezze medievali in giro per il paese assistiamo e partecipiamo a questo tipo di spettacoli, chiediamoci il perché delle cose, da dove provengono, quali siano le storie che ci sono dietro e quali le bocche che per prime le hanno vissute. L’arte e la storia sono legate indissolubilmente quando sono raccontate da chi la storia fino ad oggi la subisce e che da più di un secolo si muove perché non la si subisca più. Riscoprire il “folclore” e la cultura popolare come cultura del popolo e per il popolo è la strada che apre le porte ai grandi stravolgimenti sociali che già hanno attraversato il nostro paese e il mondo.
[di Marco Coppola]