“Vuless addiventà n’albero ‘e rose
Pe te fa sentì l’addor e chist ammor
Io vuless addiventà nu poc e sol
Pe te fa sentí o’calore e chistu ben”
Articolo di RAFFAELLA ANNUNZIATA
Il nuovo lavoro di Ferzan Özpetek, Napoli Velata, ha accompagnato il pubblico negli ultimi giorni del Dicembre 2017, tra un classico cine-panettone ed un film d’animazione a tema natalizio. Sul grande schermo troviamo Giovanna Mezzogiorno, una garanzia nel panorama del cinema italiano, affiancata da Alessandro Borghi, astro nascente con all’attivo già lavori importanti, ultimo tra i quali Suburra – La Serie, uscita nel 2017.
La Mezzogiorno interpreta Adriana, una anatomopatologa “circondata dai morti”, che vive con Andrea una notte di passione; quella notte sarà il fulcro centrale da cui Adriana inizierà a dipanare la matassa del suo mondo interiore, a svelare dei misteri e fare i conti col suo passato.
Sullo schermo viene presentato un continuo oscillare tra realtà e fantasia, che si presta ad innumerevoli interpretazioni e possibilità di comprensione. Lo spettatore si chiede sin da subito se il “fantasma” esista davvero, o è vero solo per Adriana. Ci si può affidare alla fantasia, alla volontà di credere a qualcosa di sovrannaturale, o imbarcarsi nell’impresa di definire una possibile diagnosi per la protagonista, ancorarsi dunque al reale di tutti i giorni, e decidere che Adriana soffre di allucinazioni. Se fosse chiesto a tutti i presenti in sala di rispondere a questa domanda, non replicherebbero in modo univoco, ma si alternerebbero tra queste due interpretazioni, forse portandone ancora altre.
In psiconalisi, il “fantasma” viene descritto come una scena immaginaria, suscitata da componenti profonde del desiderio, che non hanno trovato sbocco o realizzazione nella vita concreta dell’individuo. Il fantasma è dunque desiderio inconscio e profondo, inespresso, irrealizzato, e che proprio per questo si materializza davanti agli occhi di Adriana. E’ qualcosa di pulsionale, violento, una passione estrema come quella vissuta la prima notte insieme ad Andrea. Una passione che viene spenta sul nascere, che lascia Adriana sola, con il desiderio spezzato a metà, con un ricordo amaro di felicità che lei tenta, poi, di riprodurre con la sua fantasia.
Ma il suo stesso fantasma, la sua creatura, si ribella contro di sé, perché amore è sempre accompagnato dalla sua controparte: Eros e Tanathos sono inscindibili. Adriana proietta all’esterno le sue pulsioni, che diventano reali sotto forma del gemello di Andrea, bello quanto l’originale, ma con un lato “oscuro” evidente, cattivo. La proiezione è un meccanismo di difesa arcaico, infantile, e permette di spostare all’esterno di se stessi le proprie pulsioni e sentimenti interni; per Adriana, il gemello di Andrea diventa il ricettacolo del suo mondo interno.
La scena iniziale non è immediatamente comprensibile: Giovanna Mezzogiorno darà il volto alla protagonista della pellicola, è stata vista nel trailer, scritto a caratteri cubitali sui poster promozionali, ma non si capisce immediatamente chi è il personaggio che appare nelle prime scene. Non è dato saperlo, sarà compreso solo in seguito, con il dispiegarsi delle immagini.
Dalla scena di omicidio e poi suicidio ha origine la “schizofrenia” di Adriana, che verrà covata e nascosta fino ad esplodere poi, scatenata dal fattore della morte improvvisa di Andrea, una persona con la quale, dopo aver condiviso un’intimità estasiante ma fugace, poteva nascere davvero una storia d’amore, una condivisione, un riconoscimento dell’Altro, una fiducia data ad un’altra persona. Non è un caso che sia la prima scena, ma che il suo significato reale venga svelato solamente dopo, quando Adriana inizia a ricostruire lentamente, quasi come un lavoro di cucitura, la storia tragica e segreta della sua famiglia. Un segreto non segreto, laddove lei stessa da bambina aveva assistito personalmente alla morte dei suoi due genitori, conoscendo ed intuendo le motivazioni, confermate nella rivelazione della zia. Un trauma sedimentato nella propria coscienza, insabbiato ma che esplode in età adulta.
Personaggio ambiguo ma interessante quello della zia di Adriana, che si prende cura di lei dalla morte della madre ma che in realtà può essere considerata come la causa della sua infelicità. La zia ed il padre hanno distrutto la vita della madre di Adriana, e l’hanno fatto con consapevolezza, forse anche con desiderio, come ammette sua zia. La zia è obbligata a crescere Adriana, ha un debito nei suoi confronti, è stata il motore che l’ha strappata alla felicità dell’abbraccio materno e paterno, all’idea di una famiglia “felice”.
Zia e madre, due sorelle, due donne a confronto, un rapporto la cui componente principale era l’invidia, invidia che mira a rovinare la fonte da cui nasce: la zia sa che non potrà mai ambire ad essere come la sorella, donna bella e talentuosa, che ai suoi occhi aveva tutto, così si impegna per eliminare la fonte di quei sentimenti invidiosi, in un vortice di inganni e segreti, sottraendole l’amore dell’uomo che ama, portandola alla follia: follia sulla quale Adriana si è sempre interrogata.
Sua mamma era pazza?
E lei? Ha ereditato la follia, è per questo che si è sempre sentita fuori posto?
Una scena magnifica è quella girata con gli occhi di Adriana, al momento in cui sua zia rivela la verità, gli episodi del passato, in cui viene inquadrata la casa, vuota, ma si ascoltano la musica, le risate, il chiacchiericcio. La casa era piena di fantasmi del passato.
Fa seguito poi un altro snodo cruciale del film.
Adriana rivede la sua sé bambina, poco dopo la morte di Pasquale, e sente finalmente il bisogno e la capacità di perdonarsi, di togliersi una colpa che forse comunque avvertiva; i bambini tendono sempre ad assumere su di sé le colpe degli eventi esterni, assorbono le sensazioni e le emozioni presenti in famiglia, in casa.
Esoterismo, misteri, superstizioni da sempre caratterizzano Napoli e la sua tradizione popolare, ed è bello il modo in cui viene reso omaggio alla bellezza e ricchezza di questa città, della sua arte, della sua cultura, dei suoi luoghi magici ed aristocratici. Una Napoli bene che non si vede tutti i giorni, lontana dai problemi e dai guai, un’esistenza ovattata, proprio come quella di Adriana.
Inoltre, Napoli si presta bene all’operazione di narrazione secondo uno stile di “realismo magico”, alla maniera di Garcìa Marquez. Napoli è magia, tradizioni, misteri, che si uniscono alla realtà e alla razionalità, talvolta cruda e dura.
La morte di Pasquale mette Adriana di fronte ad un nuovo dramma, alla perdita di una persona cara, un amore sincero ed un affetto duraturo. Questo fa scattare in lei una molla, la porta fisicamente lontana da casa, lontana dal fantasma, lontana dalla sua costruzione mentale. La morte di Andrea l’aveva fatta entrare in un tunnel di proiezioni ed immaginazioni, la morte di Pasquale invece piano piano la fa uscire. Adriana riesce a liberarsi del suo fantasma quando la realtà inizia ad insinuarsi nella sua vita, nella figura del poliziotto.
Ma chi ha ucciso Andrea? Adriana si interroga e cerca di capire, ma non riesce a farlo. La trama del genere thriller si unisce alla già complessa storia, ma non la appesantisce, rende il mistero ancora più fitto e la necessità di scoprire la verità ancora più urgente.
Ed il momento rivelatore sulla morte di Andrea avviene, ancora una volta, grazie alla morte di Pasquale, alla sua commemorazione. Adriana sta bene, è serena, sta meglio. Ha cacciato via il suo fantasma, cambierà casa, ha davanti a sé di nuovo la vita.
Ma nel giro di qualche secondo, si compie la scena finale e l’ultimissimo atto: la rivelazione sull’assassino.
Il pubblico è finalmente “risolto”, contento. Andrea non potrà mai tornare, si sa cosa è avvenuto, si sospetta chi è stato il mandante. Lo stato d’animo che accompagna le scene finali sembra quasi essere di appagamento, di pace con il passato, come quello di Adriana.
Ma, scena finale. “E’ passato un ragazzo con lo zainetto, ha lasciato questo per lei”.
E ancora, un brivido, la pelle d’oca. Il medaglione che la zia aveva donato a suo padre innamorato e simbolo di una passione rivelatasi distruttiva, che lei stessa aveva donato al gemello di Andrea, pegno di una distruzione alla quale Adriana si stava consegnando ma che riesce poi a debellare, è di nuovo nelle sue mani. Il medaglione diventa un totem, qualcosa che può servire per ancorarsi alla realtà, mentre vorticosamente la soluzione trovata qualche istante prima inizia di nuovo a vacillare.
Il fantasma c’era, davvero? E’ ancora una sua proiezione, assieme all’impiegata della Cappella Sansevero?
Si rimane di nuovo spiazzati, basiti. Le scene finali in cui Adriana si incammina e poi sparisce narrano che no, non è possibile svelare tutti i misteri della trama. L’amaro in bocca per non avere una conclusione chiara, logica e razionale lascia spazio alla nostalgia e alla dolcezza drammatica, che ringrazia la storia appena narrata, che ci ha lasciato con mistero, con qualcosa di cui parlare.
In ogni opera d’arte, di qualunque genere, sia importante lo stimolo dato, l’immagine rappresentata, il romanzo scritto; ma c’è una parte fondamentale, uno spazio necessariamente vuoto che come tale deve rimanere, una tensione tra quello che c’è e quello che non c’è, che viene colmata con i nostri pensieri, l’immaginazione, le nostre emozioni. Sono queste le opere che hanno qualcosa da dire: quelle che lasciano uno spazio bianco.
[di Raffaella Annunziata]