Grazie agli scatti di Caesar i crimini del regime di Assad non sono più un mistero e fanno il giro del mondo.
NAPOLI – Finalmente arriva a Napoli la mostra-denuncia dei crimini del regime siriano di Bashar al Assad. Fino al 18 dicembre, nella sala delle terrazze del Castel dell’Ovo, sarà possibile documentarsi su quanto accaduto ai detenuti delle carceri siriane attraverso una scioccante esposizione di fotografie che non lasciano spazio all’immaginazione. Patrocinata dal Comune di Napoli, “Nome in codice: Caesar” è una mostra promossa da Amnesty International, FNSI, Articolo 21, FOCSIV – Volontari nel mondo, Unimed e Un ponte per…, con la collaborazione della FUCI e degli studenti dell’Università L’Orientale di Napoli. Lo scopo è senza dubbio quello di mettere in luce le efferatezze commesse in un paese in cui ormai i massacri non sono più un segreto.
NOME IN CODICE: CAESAR – Caesar non è altro che lo pseudonimo di un ex fotografo della polizia militare del regime siriano, incaricato di fotografare i corpi dei detenuti rimasti vittime della crudeltà delle torture inflitte nelle carceri del proprio paese. «Facevo delle pause per trattenermi dal piangere. Ma ero terrorizzato. Continuavano a tornarmi in mente le cose che avevo visto durante il giorno. Pensavo che questi corpi potevano essere quelli di mio fratello o delle mie sorelle. E questo mi faceva male», questo il messaggio inviato dal fotografo in occasione della mostra. Caesar non rilascia interviste e la sua identità è in effetti un mistero. Dopo essere fuggito dalle carceri, portando con sé e divulgando gli scatti effettuati tra il 2011 e il 2013, la sua vita è ovviamente a rischio. Le immagini da lui immortalate sono state esposte per la prima volta al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite e da allora stanno facendo il giro del mondo. Impossibile ormai negare la crisi umanitaria in Siria. A seguito della testimonianza fornita da Caesar sono state molte le nazioni, a partire dalla Francia, che hanno aperto un procedimento per crimini contro l’umanità nei confronti del regime di Assad.
QUANDO L’IMMAGINE È TESTIMONIANZA – «Queste immagini rappresentano la Siria violata, il mio popolo – dice Mazen Alhummada, ex prigioniero sopravvissuto alle torture, presente ieri all’inaugurazione della mostra – mi fanno ripensare anche a quelli tra i miei parenti e amici che sono ancora in detenzione. Attraverso le immagini raccolte in questa mostra io cerco di assolvere a quello che è il mio dovere, ovvero quello di far conoscere al di fuori del mio paese qual è la lotta che sta portando avanti il mio popolo e che tipo di repressione si trova a dover affrontare: i crimini di Bashar al Assad, a cui vanno aggiunti prima quelli di Hezbollah, poi quelli dell’Iran, la Russia e le milizie settarie sostenute dallo stesso Iran. Tutti concorrono a opprimere un popolo la cui unica colpa è stata quella di chiedere la propria autodeterminazione e naturalmente libertà e dignità per se stesso e per i propri figli». Sono circa trenta le immagini strazianti selezionate in occasione della mostra, per far conoscere al mondo intero quello che sta accadendo tutt’ora in un paese troppe volte dimenticato perché lontano da noi. Non è facile mantenere lo sguardo su quei visi e quei corpi di innocenti, costretti a confessare colpe mai commesse. Lo stesso Mazen, accusato ingiustamente di trasportare armi invece di latte in polvere, ha dovuto cedere alle sevizie alle quali era stato sottoposto. Il suo racconto probabilmente ora non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalle foto di Caesar, grazie alle quali semplici parole diventano una realtà purtroppo dura da accettare. La lotta alla tortura in Siria, come in tantissimi altri paesi del mondo è un problema attuale, che troppo spesso passa in secondo piano. Organizzazioni umanitarie, come Amnesty International, i cui collaboratori saranno presenti alla mostra per l’intera sua durata, lottano da sempre contro ogni tipo di violenza e di sopruso. Maggiore consapevolezza tra le persone non può fare altro che accelerare i tempi di reazione dei popoli contro la violazione dei propri diritti e se questa consapevolezza può provenire da una forma d’arte come la fotografia, che da sempre serve ad immortalare ciò che altrimenti verrebbe facilmente dimenticato, allora ben venga.
[di Magdalena Sanges]
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