Pesante, ruvida, spigolosa e a momenti anche tagliente. Come se solo io riuscissi a guidare quella bicicletta che, per anni, accorciò i chilometri da fare per andare a lavoro.
Spaesato; spaventato; nauseato. Quando me la portarono via, divenni incapace di mantenere l’equilibrio, sbandavo e, in segno di protesta, le mie gambe dimenticarono come si cammina.
No, non era bella. No, non era comoda. Discreta, composta, elegante, non attirava l’attenzione di nessuno.
Una parte di me andò via con lei. Entrambe non hanno fatto ritorno.
Appariscente, snella, alta, imponente. Avrebbe attirato l’attenzione di chiunque. Napoli si girava a contemplarla quando si andava in centro, passando da via Caracciolo.
Era più che una nuova bici: in lei ritrovai la complicità, l’armonia. Non esistevo senza di lei. Lei non esisteva senza di me.
Si capisce che, quando quel pomeriggio scesi di casa, trovando solo i resti segati di un catenaccio, non potei che sentirmi violato, trafugato, colpito lì dove non resta che piangere.
Ma per mantenere l’equilibrio bisogna pedalare. Per pagare l’affitto bisogna lavorare e a me non dava fastidio andare a lavoro con una bici troppo piccola. Però mi paralizza l’idea di dover spiegarne il furto a mia madre. Era un regalo del fratello.
E’ il terzo furto in sei mesi.
Potranno portarmi via tutte le bici che vogliono, ma non smetterò mai di pedalare.
-di Roberto De Rosa-