Rimpianto, rimorso, solitudine travestita da libertà, essenza di sé sottesa al vuoto impersonale, effimera allegria, fittizia comodità, desolazione e pienezza, interiorità e apparenza, sguardi laboriosi e occhi spenti, omologazione ed eccellenza, silenzio e rumore, amore e paura, fuga e ritorno, arte, infiniti simbolismi, poesia e decadenza, intermittente bellezza sebbene costante… una Grande Bellezza.
Dopo lo stra-ordinario successo sul grande schermo, il capolavoro 2013 di Paolo Sorrentino La Grande Bellezza approda in tv in prima visione assoluta su canale 5 per rapire in prima serata l’attenzione di quasi nove milioni di italiani. Ma è un ulteriore successo: La Grande Bellezza solo 24 ore prima riceveva a Los Angeles l’Oscar come migliore film straniero, un evento che ha caricato d’orgoglio il nostro ‘bel paese’ premiato per la prima volta nel 1947 con Sciuscià di Vittorio de Sica, e che aveva ancora impresso nel suo immaginario un Benigni euforico, in piedi sulle poltrone, saltellante, prima di sollevare l’ambita statuetta nel 1999 per La Vita è Bella.
Proprio mentre l’informazione pubblica discorre dell’ennesima ‘moda’ drammatica del nostro tempo detta necknominate, ovvero l’usanza di bere fino a star male per poi filmarsi e pubblicare il video della propria bravata sul web, e mentre a Roma si diffonde sempre più la notizia di braccialetti del costo di una ventina di euro con i quali si ha la possibilità di bere all’infinito nei bar convenzionati, Paolo Sorrentino rappresenta e presenta le sue visioni di bellezza e amarezza della società a noi contemporanea, attraverso il talento e i volti di Toni Servillo, Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Carlo Buccirosso, Isabbella Ferrari e tanti altri grandi nomi del cinema italiano, sullo spettacolare scenario di una maestosa Roma che trasuda di gloria passata e splendore sempiterno tanto che sembra gridare in ogni angolo il suo famigerato ‘Caput Mundi’.
Nell’eco di quella storia che riecheggia nelle imponenti architetture, archeologie, strade, ponti che si specchiano nel lento Tevere, celebri alberi di pino, tutto illuminato da un sole quasi cromo terapico, si muove la nuova storia.
La Grande Bellezza di Roma, che approfitta dell’ammirazione di un turista cinese intento a fotografarne le meraviglie per trafiggerlo con una folgorante sindrome di Stendhal, è da subito ossimoro di un’altra Grande Bellezza, quella che non c’è.
Sostanzialmente non c’è Bellezza, né niente di Grande perdendosi nelle lusinghe dell’apparente comodità di quella che comunemente viene definita “bella vita”. Quella vita, in fondo, senza il grande amore, la cui mancanza col tempo diventa indolente per poi ridestarsi d’improvviso, troppo tardi, come una voragine interiore; o senza ‘l’abbraccio’ di sentirsi esattamente se stessi, facendo ciò per cui si è fatti fino all’ennesima potenza; così, dopo una vita trascorsa come fosse una costante sbornia, a 65 anni ci si ferma, finalmente ci si parla e ci si dice «Ma perché Elisa mi lasciò?», quel grande amore lasciato andare via in gioventù è ormai irrecuperabile, lei è morta dopo un’esistenza occupata accanto ad un altro uomo che non ha mai amato, mentre nutriva le pagine di un suo diario segreto di quell’amore perduto; sentirsi dire dalla direttrice del proprio giornale «Tu non hai fatto la carriera che meritavi»; o ascoltare la domanda di una bambina «Ma tu chi sei? … No, tu non sei nessuno!»; così chiedere ad un mago intento in un numero d’illusionismo «Fammi sparire!», perché la consapevolezza di una vita intera immersa nel nulla, è feroce.
Eppure lui, Jep Gambardella, un grande giornalista, un grande scrittore, un uomo carismatico dal fascino ipnotico, interpretato da un eccezionale Toni Servillo, sebbene avesse voluto subire l’abbaglio dell’omologata superficialità, è fondamentalmente l’eccezione, e lo sapeva da sempre: «A questa domanda da ragazzi i miei amici davano sempre la stessa risposta, “la fessa”. Io invece rispondevo “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?”. Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore».
Talento, sguardi per ogni dettaglio, un grande amore grazie al quale scrive un libro, ‘l’apparato umano’, il suo unico romanzo ma di grande successo, «Si vede che quando lo hai scritto eri un uomo molto innamorato», ma Jep sembra non coltivare come dovrebbe e potrebbe queste sue potenzialità e fortune, e indossa un’altra vita, fatta di feste alcoliche, spogliarelli, amici, donne che non amerà mai, risate forzatamente inconsapevoli del loro essere sostanzialmente amare.
Forse perché in un mondo inconsistente è più comodo essere meno, essere persone comuni e volere cose comuni, come riempire un bicchiere di capienza 300 ml con 100 ml di liquido, perché così ci si sente più leggeri, ma… 200 ml di capienza muoiono. Grosse parti del suo essere sono in necrosi, tanto da smettere anche di fare domande perché convinto che «Sarebbe molto deludente per me scoprire che lei non ha nessuna risposta». Il disinganno. O la pigrizia, la fragilità? Chi può dirlo. O forse, chissà, il non amare se stessi? Come quella donna che corre nuda verso un muro fino a dargli contro una violenta testata, per poi rialzarsi e gridare «Io non mi amo!», ma quella è solo una performance ed il muro è di gommapiuma, è l’imitazione di una tragedia interiore, puro esibizionismo travestito di una sostanza che non c’è, la cui messinscena viene scorsa perfettamente da Jep che intervistando la donna, la quale sostiene di ‘vivere di vibrazioni’, le chiede «Ma che cosa sono per te le ‘vibrazioni’?», la performer in fondo non lo sa.
Al mondo? Non c’è davvero niente di interessante, niente che arricchisca, stupisca, “niente”. Anche quando qualcuno filosofeggia, tentando di ‘vendersi bene’ come qualcosa di ‘eccezionale’, in fondo, scavando, è solo un bluff, un inconsistente, inutile, bluff. Non c’è languore, niente di adrenalinico, nessun mordente, nessuna pazzesca interazione, nessuna tensione emotiva, intestina, mentale tantomeno così vera e forte da rinnovarsi ad ogni occasione di ogni giorno come fosse sempre ‘nuova’.
Si può mai scappare davvero o per sempre da se stessi? Da ciò che davvero si vuole? «La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso perdere tempo a fare cose che non mi va di fare».
Conducendo e coltivando apparentemente una vita in balia degli eventi, una vita comune o comunemente mondana, Jep lascia inevitabilmente dietro di sé sintomi evidenti di eccellenza, di differenza: anche nella mondanità lui non è solo un mondano, ma il re dei mondani; mentre tutti si muovono sotto gli ordini di un ballo di gruppo, lui fa un passo stonato, esce dalle file e si accende una sigaretta; non si adatta nemmeno al comune spirito di un funerale dal quale si scompone alzandosi per mettere in scena il suo ‘spettacolo’ all’orecchio di quella mamma che piange il figlio morto.
Eccolo il suo dramma: la sua essenza fuoriluogo, «Sono anni che mi chiedono perché non torno a scrivere un romanzo. Ma guard sta gent, questa fauna, questa è la mia vita, nun è nient! Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente e non c’è riuscito, ci posso mai riuscire io?».
Soldi, bei vestiti, gioielli, cocktail, feste con tanto di trenini che Jep sarcasticamente deride «Io adoro i trenini! Sono belli i trenini che facciamo alle nostre feste, i più belli di tutta Roma, sono belli perché non vanno da nessuna parte», abitudini inconsistenti, gesti inconsistenti, discorsi inconsistenti, compagnie sull’orlo della disperazione, una maggioranza di persone che vive di questo perché ‘È’ questo, anime assenti ma inconsapevoli di esserlo perché è proprio quella la loro vita, dunque l’unica che possono e devono vivere. Esistenze come fossero un ‘botox party’ che ad un certo punto spinge Jep ad una dignitosa riflessione sulla sua vita e su quella miseria che lo circonda, della quale ha voluto far parte pur non facendone parte, ma il brillante scrittore napoletano quando riflette, quando senza maschere entra in contatto con se stesso, ‘vede il mare’… come Ramona, con il viso di una perfetta Sabrina Ferilli, una donna con la quale instaura un innocente e profondo rapporto, anche lei come lui vive di apparenze, fa la spogliarellista e porta un nome “ambiguo”, una contraddizione perché anche lei come lui fa la differenza, «Lo vedi il mare, Ramona?», «Dov’è?», «Sul soffitto!», «Sì,lo vedo il mare», ma ben presto quella relazione finisce perché lei muore di un male incurabile, entrambi ‘vedono il mare’, entrambi sono morti, lei nel corpo, lui è morto dentro.
Il mare, una costante, carico di simbolismi, e sacro e profano, inoltre, a ‘dirigere’ il film. Resi come due lati di una stessa medaglia: atmosfere pregne di pace, canti delicati, corse, sorrisi, risa di bambini e suore che, come il passaggio del testimone in una sfida tra ‘danza classica’ e ‘rap’, cedono il passo a scene notturne, locali stroboscopici, musica dance all’ultima moda. Mondi in contraddizione, eppure anche le cose apparentemente opposte potrebbero non esserlo per davvero, «Che cosa fai stasera cherì?», «Una scopata ed un brodino!», «Due cose in contraddizione tra loro?», «No, sono due cose calde!». Come una suora che si presenta ad un botox party, o un cardinale esorcista che s’intende più di cucina che di spiritualità.
Tante realtà individuali in cui non c’è coerenza tra ciò che ‘sono’ e ciò che ‘fanno’, nemmeno una bambina, simbolo di purezza: lei sogna di diventare un veterinario da grande ed invece è costretta dai suoi genitori a coltivare ed esibire il suo talento pittorico.
A ristabilire equilibrio tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, tra ciò che ‘appare’ e ciò che ‘è’, è suor Maria, detta “la Santa”. Una missionaria cattolica di 104 anni che ha consacrato la sua vita alla povertà. Jep vorrebbe intervistarla, lei non gli concede un’intervista «La povertà si vive, non si racconta», ma piuttosto lo guida verso qualcosa di molto più importante, il ritorno verso se stesso.
La Santa dorme solo su giacigli di cartone, mangia solo 40 grammi di radici al giorno e conosce a memoria tutti i nomi di quei numerosi uccelli che si poggiano in riposo temporaneamente sulla terrazza di Jep prima di migrare ad ovest, «Perché non hai più scritto un libro?», chiede suor Maria, ammiratrice dell’unico romanzo di Jep, «Cercavo la Grande Bellezza, ma non l’ho trovata», «Sa perché io mangio solo radici?», «No, perché mangia solo radici?», «Perché le radici sono importanti», così la longeva missionaria con un soffio accompagna via tutti quegli uccelli che faranno ritorno alle loro “radici”.
Jep decide finalmente di recarsi verso l’isola del Giglio per svolgere quel reportage, richiestogli dalla sua direttrice ormai da tempo, sul naufragio della Costa Concordia, proprio qui, ricordandosi del suo primo incontro con Elisa, con un rappresentativo faro come sfondo nonché orizzonte e meta perchè simbolo indicativo della strada giusta, lo stesso faro della sua giovinezza, il giornalista ‘sente’ l’importanza delle “proprie radici”, l’importanza di dare finalmente il giusto peso al suo talento, dunque alla sua carriera, l’importanza dell’amore, quel grande amore unica cosa al mondo a cui è dato di colmare occhi, arricchire mani, nutrire pensieri, parole, vite, e dunque tornerà a scrivere, «Che questo romanzo abbia inizio»!
Eppure il retrogusto è amaro. La Grande Bellezza lascia ammirati per la genialità ad essa sottesa, per le costanti associazioni di pensiero che offre e genera, per le numerose ‘scatole cinesi’, che si schiudono con una semplicità pari solo alla loro acutezza, che racchiudono sempre simbolismi più profondi quasi inafferrabili, ma umanamente pensierosi, è un po’ una ‘tragedia a lieto fine’, un lieto fine dunque ben poco ‘lieto’ perché sostanzialmente il grande amore è perduto, e la sua vita ha 65 anni. Ma «rimane ancora qualcosa di bello da fare», e chissà cosa ‘dirà’ quel romanzo…