Riappropriarsi delle città e valorizzare gli spazi urbani può sembrare un concetto dal retrogusto politico ma ai tempi della crisi è la nuova tendenza a farsi largo anche nei grandi centri urbani pervasi da un vento di cambiamento.
Lo spazio secondo molti è l’oggetto del contendere storico tra uomini, classi, etnie, gruppi sociali e quant’altro. Dall’antica struttura urbana della vecchia Grecia alla Berlino murata della guerra fredda, passando per i CIE, i confini fisici e immaginari con il sud del mondo ed è da sempre strumento di controllo sociale, economico e politico. In quanto tale sarebbe stato impossibile che esso non finisse nelle mire dell’arte nella forma di perfomance, figurativa, teatrale o danzerina; l’arte da sempre rappresenta, racconta o vive lo spazio. Senza lo spazio, senza l’appropriazione di spazio, l’arte perderebbe la sua rappresentabilità, non sarebbe arte. Il legame profondo che esiste tra l’arte, l’artista e tutto quanto nel suo proprio tempo e nel suo proprio spazio gli giri intorno è immancabilmente profondo e indissolubile. In questo senso dopo le grandi ere in cui l’arte e la sua rappresentazione erano spinte, sostenute e trovavano campo aperto nella spazialità di una chiesa, una casa reale o chi per esso, oggi quegli spazi sempre più le sono negati. La crisi generale in cui versa la nostra società getta e relega queste forme d’espressione ai margini, tenendo alta l’attenzione sui canoni, valori e beni “classici” (anche se nella pratica si trascurano e danneggiano anche quei beni); recuperare l’antico così com’è, senza reinventare o spingerne a una conoscenza storica concreta e materiale non è altro che negazione di nuovo spazio, di nuove forme espressive, di libera espressione artistica dei tempi che si vivono.
E allora che fare? Se gli spazi non ci sono, bisogna prenderseli. È quello che sempre più collettivi artistici, singoli artisti di varia provenienza stanno facendo in giro per il mondo. Le forme sono quelle che hanno avuto origine negli anni ’70 del secolo scorso: land art, videoarte, street art, body art e le varie declinazioni del movimento definito “arte povera”. L’arte si riprende palazzi, strutture, pareti, luoghi di lavoro, mezzi di trasporto e tutti gli spazi sociali che diffusamente viviamo e di cui abbiamo esperienza cognitiva diretta e costante. Esperienza recente di questo genere è stata la HERE una mostra d’arte contemporanea che si è tenuta dal 13 al 22 maggio a Torino presso gli spazi occupati del complesso della Cavalerizza Reale: dimostrazione che occupare uno spazio vuol dire occuparsi di qualcos’altro; che l’arte può ritenersi tale solo se salta il piano dell’autoaffermazione e si getta nel concreto dell’esistente e del vivere sociale per trasformarlo, migliorarlo, spingerlo in avanti; l’arte come capofila del mondo che può essere, come dimostrazione concreta che riprendersi le città è possibile, come atto concreto di costruzione del mondo che sarà.
[di Marco Coppola]